Era ormai qualche anno che desideravo andare in Provenza per percorrere i suoi canyon. Di sicuro all’interno del gruppo non ero il solo; altri, che come me gli anni precedenti si erano tuffati nelle acque corse, condividevano la speranza un giorno di poter andare nel Dipartimento delle Alpi Marittime.
Finalmente riusciamo a far coincidere un po’ di cose e rendere possibile il viaggio. Siamo un bel gruppo di 14 persone, scaglionato in 3 date di partenza e di rientro
Già prima di partire un componente rimane in Sardegna a causa di una importante dissenteria. Povero!!!!
Rimaniamo in 13. La compagnia è ottima. Ci sono tutti i presupposti per divertirci, e anche molto.
Il giorno 21 agosto 2005 chiudiamo il gruppo e siamo al completo.
Per il giorno 22 è stabilito che avremmo percorso un bel canyon, la Maglia, affluente della Roya.
Date le brevità dell’avvicinamento, percorrenza e rientro, di comune accordo decidiamo di prendercela un po’ con calma. A metà mattina siamo pronti per partire. Ci avviciniamo all’accesso a monte della forra. Osservando la gola dall’alto riusciamo ad intuire quanto questa sia incassata. Tutti noi non vedevamo l’ora di indossare la muta; io per primo. Avendo studiato bene la descrizione del percorso sapevo bene cosa mi sarei trovato davanti una volta entrato in acqua.
Scaricati i torrentisti e i materiali, Simone e Claudia vanno a parcheggiare una macchina nel punto di uscita a valle. Una volta rientrati, abbiamo preso il sentiero di ingresso alla gola, 10 minuti in mezzo al bosco lungo il quale si è scherzato e parlato un po’ di tutto. Il morale era altissimo.
Intercettato il fiume ci si è svestiti degli abiti “civili” per indossare quelli di un gruppo di “pazzi” che per divertirsi fa cose “pazze”. L’acqua era abbastanza fresca, tra i 13 e 15 gradi. Fatto il primo tuffo alle 12:45 si dava inizio alla nostra avventura torrentistica in Provenza.
Incontriamo subito il primo scivolo, mi affaccio, assicurato con la longe all’armo. Capisco subito che si può scendere lungo il toboga formato dall’acqua, ma non tutti erano convinti. Aspettavamo quindi l’arrivo della corda per verificare la possibilità di scivolare sull’acqua.
Non resistevo alla tentazione. Usando lo zaino come cavia ho verificato la fattibilità del toboga e, dopo di che, mi sono lasciato avvolgere dall’acqua e fatto trascinare dentro la pozza sottostante. Quasi tutti mi hanno seguito, qualcuno, invece, meno temerario, è sceso in corda.
Una serie di salti tuffabili ci portano avanti nella gola. Ancora qualche scivolo e un salto ci portano in una zona un po’ più larga illuminata dal sole, il quale fa scaldare le mute che trasmettono un po’ di calore alle nostre povere ossa.
Ricomposto il gruppo abbiamo continuato nella progressione. Qui incontriamo quello che a me sembrava un bel tuffo ma che però mi preoccupava pochino per l’atterraggio. Per primo scende Fabrizio che con l’aiuto della corda verifica il salto.
Non me lo consiglia. Allora scendo anche io usando gli attrezzi.
Man mano che mi avvicino al fondo mi rendo conto che quello che stavamo discendendo era un fantastico toboga di 9 metri e io me lo stavo perdendo. Non immaginate la delusione provata in quel momento.
Ormai ero giù. Di risalire in corda non ne avevo la minima voglia. Una volta giù verifico il punto di atterraggio, era libero, non erano presenti ostacoli pericolosi sotto il livello di quel liquido trasparente, che in quella occasione assumeva tutte le tonalità del verde, dal più scuro al più chiaro sino a riprendere il suo stato di liquido incolore.
Dato che da su non si riusciva a vedere il punto di impatto con l’acqua, regolavo i lanci da sotto. Il nostro divertimento era diventato quello di guardare le facce terrorizzate di tutti coloro che scendevano lungo il toboga.
Recuperata la corda abbiamo ripreso la marcia. Qui incontriamo un’altro salto. All’apparenza sembrava un traverso. Con una catena di longe fatta con Marcello ne ho percorso una parte.
Dall’alto ho visto una strettoia con acqua bianca che gorgogliava. L’unica cosa da fare era scendere in corda e quindi mi sono fatto calare per verificarne la portata.
Anche il resto del gruppo è stato calato con la stessa tecnica. Questa manovra è risultata sicuramente più veloce rispetto alla solita calata in corda doppia.
Qui il sole non riusciva ad arrivare su di noi ed era presente anche una bella corrente d’aria che mi ha fatto perdere non poco calore, stavo quasi tremando. Man mano che mi raggiungevano li facevo proseguire in modo che non prendessero troppo freddo, anche perché lo spazio non era sufficiente per accoglierci tutti.
Finita la prima strettoia riprendiamo un po’ di calore al sole e ci mangiamo una barretta energetica.
Inizio del traversoRipresa la discesa un’altra serie di tuffi ci porta alla grotta che viene attraversata dal fiume, la calata non si presenta estremamente difficoltosa. Ma la portata d’acqua e le capacità tecniche non altissime di tutti ci fanno preferire una via alternativa, leggermente più alta ma completamente all’asciutto se non per il fatto che si atterra in un lago. Pochi metri e siamo fuori dalla grotta.
Qui l’attesa si prolunga tantissimo, iniziamo a renderci conto che tutte queste persone sono un po’ troppe e decidiamo che il giorno seguente avremo dovuto organizzare più gruppi autonomi.
Un salto toboga crea un ulteriore rallentamento che mi ha fatto decidere di andare avanti pian piano, almeno cosi non stavo fermo e non mi sarei ghiacciato.
Mi sposto con un piccolo gruppo, Claudia, Fabrizio e Philip.
Incontriamo un toboga. Questo è armato ma noi non avevamo corde a portata di mano. Mi tuffo per verificare il toboga. Do l’ok e i tre si fanno scivolare. Entriamo in una strettoia, dai miei ricordi è l’ultima della gola, dopo quella avremo potuto togliere le mute e prendere la via del rientro.
Affrontiamo un salto all’apparenza non bellissimo, era armato ma eravamo ancora sprovvisti di corda e non volevamo aspettare. Eravamo praticamente in penombra e giù si intravedeva un po’ di sole.
Saltati in acqua abbiamo atteso che il gruppo ci raggiungesse. Si trattenevano molto. In quel momento le lancette dell’orologio segnavano 17:40; avevo appena controllato l’ora, per la preoccupazione di un eventuale rientro al buio.
Non era tardissimo, ma la zona era veramente in ombra, sembrava molto più tardi. Verso le 18:00 mi raggiungono Roberto e Rita, li avviso di mettere una corda data la difficoltà del salto. Subito dopo giunge Davide M. erano le 18:05 – 18:10 (per un po’ questo orario credo che me lo ricorderò!!!!) mi chiede come ero sceso dato che la corda non era ancora sistemata.
Gli dico del tuffo e gli indico il punto in cui dover atterrare.
Lui prende coraggio e mira. Atterra nel punto migliore tra tutti i possibili, va sotto. Io lo osservavo. Appena riemerge mi guarda in faccia e mi dice: “MI SONO ROTTO, TIRAMI FUORI”, io credendo avesse preso solo un colpo un pochino più forte e nulla di più non gli ho dato troppa importanza. Ma evidentemente mi sbagliavo, Mi guardava da dentro la pozza e mi ripeteva la frase. Ha iniziato a ripeterla a raffica, non si fermava.
Allora entro dentro l’acqua, lo prendo sotto le braccia e lo porto fuori. Come lo giro su se stesso per farlo sedere, vedo il piede che ruota sull’asse della gamba mentre tutto il resto resta fermo. Si vede la frattura anche attraverso la muta.
Il primo pensiero è: C°°°O siamo nella M°°°A. Ero solo, i tre di prima erano già avanti. Gli altri stanno iniziando a scendere. Davide mi ripeteva, mentre mi stringeva il braccio: “MI PORTATE FUORI DA QUI? VERO? MI PORTATE FUORI?”
Io non potevo fare altro che dirgli di sì, ma nello stesso tempo sapevo che da quel momento in poi era cambiato tutto e l’uscita dalla gola sarebbe stata molto lontana nel tempo.
Mi ricordo di aver abbracciato Davide per rassicurarlo. Qualcuno si ricorda di questa scena ed è in questo momento che ha capito che era successo qualcosa.
Pian piano iniziano a scendere tutti. Io svuoto una bottiglia per cercare di bloccare la gamba in qualche modo, ma non me la sono sentita di toccarlo, l’unica cosa che ho fatto e tagliare la muta dal ginocchio verso la caviglia, e un pezzo di calzare. Dello scarpone ho tagliato i lacci per allargarglielo, avrei voluto tagliare anche lo scarpone ma Davide non mi dava l’autorizzazione.
Erano momenti difficili. Ha lanciato un urlo che ha gelato tutti.
Recuperati tutti i teli termici a disposizione lo hanno coperto in modo da non fargli prendere troppo freddo.
Con Luigi decidiamo di rimanere a fare assistenza all’infortunato, mentre tutti gli altri sarebbero usciti per allertare i soccorsi. Non si poteva fare altrimenti. Non si poteva nemmeno tentare di portarlo fuori in quelle condizioni.
Simone e Roberto partono per primi per raggiungere velocemente la macchina, con loro parte anche la prima corda. Più avanti incontrano i primi tre che nel frattempo si chiedevano il motivo del nostro ritardo.
Sul punto dell’incidente si è racimolato tutto il cibo a disposizione, acqua e un accendino per riscaldare l’aria sotto il telo che avvolgeva Davide.
Partito anche l’ultimo gruppo, portandosi con se la seconda corda, siamo rimasti soli (e senza più corde) ad aspettare che qualcuno venisse a tirarci fuori. Nel mentre sistemiamo alla meglio l’infortunato. La posizione non era delle migliori; un piano inclinato su una pozza, si scivolava non poco.
I primi momenti la gamba ha avuto una serie di assestamenti che hanno fatto vedere le stelle a Davide. La gamba sana era sotto quella fratturata e dopo un po’ sicuramente iniziava ad sentire dolore anche lei a causa della immobilità, ma non voleva spostarla per evitare di soffrire ulteriormente.
Io e Luigi impegnavamo il tempo dandogli da mangiare e da bere, ogni tanto accendevo l’accendino sotto il telo per riscaldarlo un po’. Passano cosi due ore durante le quali abbiamo finito per tagliare lo scarpone, senza toglierlo, e completato il taglio del calzare. Giunto poco sotto il malleolo ha urlato dal dolore e lì mi sono bloccato.
Tra una chiacchiera e l’altra lanciava certe urla da far gelare il sangue, non che ci volesse molto vista la temperatura esterna.
Quando urlava, e ciò accadeva spessissimo, io serravo i pugni, e ciò era dovuto non solo al fatto che ero lì, ma anche al fatto che ero impotente davanti alla sua sofferenza.
Durante l’attesa dei soccorsi, da parte di Davide, venivamo tartassati di domande. Mi chiedeva di controllare lo stato del piede, se si stava ulteriormente gonfiando, se vedevamo sangue, se era ancora rosa o stava cambiando colore.
Era preoccupato per il livello del fiume, lo sentiva in crescita. Per rassicurarlo gli avevamo messo una pietra vicino al fiume come riferimento. Lui la guardava spessissimo.
Verso le 20:10 – 20:15 Luigi ha sentito un rimbombo anomalo, era diverso da quello dell’acqua che ci stava entrando dentro il cervello. Me lo ha fatto notare e abbiamo riconosciuto il frastuono dell’elicottero che volteggiava sopra le nostre teste. Abbiamo iniziato a sperare che da li a poco tempo (qualche ora si intende) saremmo stati tolti fuori dal quel posto che sino a due ora prima era bellissimo, ma che ora stava diventando il posto più brutto del mondo.
Sempre più freddo, il frastuono della piccola cascata a due metri da noi, la luce sempre più debole. Mi sembrava buia alle 17:30, figuriamoci alle 20.
Ma ora il colore giallo della macchina volante riportava il sole e la luce nella gola. Specialmente negli occhi di Davide. Io e Luigi cercavamo la posizione migliore da dove avrebbero potuto notarci. Il primo passaggio lo abbiamo sentito ma non abbiamo visto l’elicottero. Il rumore andava abbassandosi, verso monte, poi per un po’ più nulla. Dopo qualche minuto lo abbiamo risentito e anche visto.
Una volta alle macchine abbiamo saputo che era stato comunicato un punto sbagliato e che dunque ci cercavano molto più a monte, prima della grotta. Poi i poliziotti sono andati a prelevare Roberto che ha spiegato meglio la nostra posizione direttamente a chi coordinava le operazioni.
Ma ritorniamo dentro la forra. Una volta individuato l’elicottero, abbiamo cercato in tutti i modi di farci notare. Sventolavamo le tikka verso l’alto con la speranza che bastassero per farci vedere.
Ma nulla. Al secondo passaggio io cercavo di salire su un costone di roccia, ma era talmente scivoloso che mi sono fatto almeno 4 o 5 bagni fuori programma.
A quel punto ci siamo spostati leggermente più a valle, dove le pareti si allargavano di qualche metro. Finalmente ci hanno visto ed hanno verricellato il tecnico. L’elicottero abbassandosi sopra di noi ci ha fatto cadere una pioggia di sassi e rami tanto che avevamo paura di farci del male anche noi. Un sasso ha colpito sul casco anche Davide.
Io, che ero senza casco perché lo agitavo per farmi notare, ho fatto giusto in tempo a rimetterlo che mi ha arrivata una pietra sulla mano, dopo di che una seconda pietra mi ha colpito nella parte posteriore del casco.
Il tecnico, giunto a terra e porgendoci la sua longe, ci chiedeva di assicurargli Davide in modo da portalo su. Noi, molto perplessi, gli abbiamo fatto capire che aveva la gamba troncata, ma lui non ne voleva sapere. Dovevamo spostarlo per farglielo tirare su.
Allora abbiamo parlato un po’ (per fortuna parla anche l’italiano) e ci ha detto che se non lo tira su in quel momento avremo passato la notte li. Non rimaneva che fare come ci chiedeva. Non che non ci fidassimo, ma ci e sembrato strano che non immobilizzasse un minimo la gamba.
Allora abbiamo parlato un po’ (per fortuna parla anche l’italiano) e ci ha detto che se non lo tirava su in quel momento avremmo passato la notte lì. Non rimaneva che fare come ci chiedeva. Non che non ci fidassimo, ma c’era sembrato strano che non immobilizzasse un minimo la gamba.
Prendendolo di peso, lo avviciniamo al tecnico, lo facciamo sedere sul bordo di una pozza, il piede gli si gira, per evitare che soffra eccessivamente, col mio piede gli tengo il suo in una posizione più o meno naturale. Il verricello torna giù, il tecnico se lo carica e se lo porta via. Data la conformazione della roccia, come il cavo entra in carico fa fare un pendolo ai due che vanno a sbattere sulla parete. Il tecnico si mette tra Davide e la roccia prendendo una schienata da paura. Poi se lo tira su passando tra i rami degli alberi che stanno sopra la gola.
Guardando questa salita abbiamo una conferma che l’incidente sia capitato nel punto più merdoso della gola.
Prima che il tecnico sparisse con Davide appeso a lui lo avevamo informato del fatto che eravamo rimasti senza corda per lasciarla a chi aveva chiamato i soccorsi, chiedendogli se poteva recuperare anche noi. La sua risposta è stata: “non lo so, devo chiedere”. Sentite quelle parole, io e Luigi ci siamo guardati negli occhi, eravamo quasi sicuri di dover passare la notte in gola.
Una volta alle macchine ci hanno detto che chi stava fuori era pronto a rientrare nella forra per recuperarci nel caso non ci avessero ripescati. Ma in quel momento il nostro pensiero era che avremmo visto uno squarcio di cielo stellato dal fondo della forra, anche se non ricordo per nulla se ci fosse il sereno o meno.
L’elicottero si allontana con Davide al suo interno e noi nell’attesa ritiravamo tutto. Dopo il passaggio il fondo del canyon era irriconoscibile. Foglie che formavano un tappeto unico tra la roccia e l’acqua, rami che galleggiavano, sassi un po’ dappertutto. Per fortuna che nel frattempo che l’elicottero ci cercava siamo riusciti a recuperare tutta l’attrezzatura, tranne i miei guanti che sono spariti nel vortice creato dalle pale. Ma, benché neri e ormai quasi al buio siamo riusciti a recuperarli.
Dopo qualche minuto abbiamo risentito il rumore dei motori dell’elicottero. Non ci trovava più. Abbiamo sventolato caschi e quant’altro. Io in mano avevo il bidone stagno e lo agitavo sperando che il rosso spiccasse. Poi parlando con il pilota abbiamo saputo che invece era stato il bianco a farci notare.
Teniamolo bene a mente, con l’andare via della luce i colori chiari sono quelli che si notano maggiormente
Vediamo il tecnico che scende verso noi. Io, sin quando non ho sentito dirgli che poteva tirarci su, non ero certo di uscire subito da lì. Avrebbe potuto solo annunciarci che non poteva recuperarci.
Una volta a terra vediamo che ci porge due longe. Lì finiva l’avventura. Da lì in poi si trasformava in un giro in elicottero sulla valle della Roya.
Mentre il verricello ci tirava a sé, in tre cercavamo di allontanarci dalle pareti ed evitare le frustate tra i rami degli alberi. Tentativi vani. Ci siamo presi certe frustate incredibili, meno male che eravamo dotati di mute che ci hanno protetto un minimo.
Una volta sul pianale dell’elicottero, dopo una stretta di mano collettiva tra noi e l’equipaggio, ci siamo goduti un minuto o poco più del panorama sulla Maglia e sulla Roya.
Giunti al suolo, ci rincontriamo con Roberto. Vicino a noi vediamo l’ambulanza con dentro Davide, molto più tranquillo e sereno, mentre veniva vestito del gambaletto. Era sedato, mi ha guardato ma non mi ha riconosciuto e non ricorda neanche di avermi visto.
Sbrigate le pratiche burocratiche, generalità dell’infortunato, mia e di Luigi, abbiamo scambiato qualche parole col tecnico. Per prima cosa gli abbiamo detto che eravamo coperti dall’assicurazione del CAI in quanto appartenenti al CNSAS, nel caso l’intervento fosse stato a pagamento.
Ci ha rassicurato dicendo che gli interventi sono gratuiti in tutta la Francia.
Informati sull’ospedale in cui avrebbero portato Davide ci siamo congedati dai soccorritori.
Saliti nella macchina della polizia, Roberto, Luigi ed io siamo stati accompagnati dai nostri amici che non sapevano ancora nulla dell’avvenuto recupero. O meglio, avevano intravisto Davide appeso all’elicottero, ma non sapevano altro.
Arrivati alle macchine e raccontato tutto l’accaduto da dopo la nostra separazione al momento dell’incontro, ci siamo cambiati e ci siamo diretti verso il campeggio per cercare di buttare giù qualcosa nello stomaco.
Il giorno 23 Davide è stato operato e già dal giorno dopo iniziava a sgambettare prima con il girello e poi con le stampelle.
Questa brutta avventura alla fine si è risolta molto bene. Dato che c’era poteva andare tutto molto peggio, diciamo che nella sfortuna siamo stati fortunati.
Le solite frasi fatte, ma trovarsi in quelle situazioni e vedere che comunque si sta risolvendo al meglio e tutto sommato la situazione è un po’ sotto controllo è una bella cosa. Di sicuro una avventura da raccontare ma da non ripetere.
Dopo una settimana dall’intervento, Davide si trova ancora ricoverato, e nello stesso giorno in cui scrivo mi arriva la notizia che il giorno 31 sarà dimesso dall’ospedale.
Non posso dire alla prossima. Ma rimando a nuove e più fortunate relazioni.
In quei giorni in Provenza erano presenti:
Davide Pili; Davide Marras, Diana Multineddu, Claudia Mura, Philip Graham, Fabrizio Manca, Robeto Riva, Rita Sedda, Simone Perra, Barbara Ibba, Luigi Castelli, Roberta Siddi, Marcello Marras.
Le fotografie in forra e in ospedale sono di L. Castelli;
Le fotografie in campeggio e dell’elicottero sono di M. Marras.
Un grazie a Francesca Mondio, lei sa perchè.
Davide Pili